15 GENNAIO, ORE 6:00
Lo sbattere deciso della porta irrompe nel silenzio della notte. D’istinto, ancora mezzo incosciente, libero il braccio anchilosato dal peso del mio corpo addormentato, lo agito un poco fino a che la luce verde dell’orologio che porto al polso non si attiva rivelandomi l’ora: sono già le sei.
Nella stanza il buio avvolge ancora ogni cosa ma, facendo attenzione, mi è possibile percepire i primi rumori della città che lentamente si sta svegliando: un cane abbaia forse al passaggio di qualcuno, un garage si apre e si richiude dietro un’auto che si mette in marcia.
Mi giro scostando il vaporoso piumino, sbadiglio, raddrizzo le gambe e faccio scivolare le mani verso il centro del materasso fino a che non incontro il cuscino buttato di sbieco sotto le lenzuola: è ancora caldo nonostante mi accorga – con un po’ di delusione – che nessuno vi si sta riposando sopra. “È già andata via”, penso. Torno a girarmi sul fianco, porto le ginocchia verso il petto, chiudo di nuovo gli occhi.
Ultimamente mia moglie esce prestissimo la mattina. Dice che con questo freddo sembra che il traffico sia impazzito, come se nessuno volesse più prendere altro mezzo se non la propria automobile. Io invece non ho molti impegni in queste settimane. Posso così ritardare la sveglia, godendomi il tepore della casa che si riscalda poco prima dell’alba. Non c’è niente come questi momenti di calma per rilassarsi e pensare.
Mi alzo che manca qualche minuto alle sette. Mi infilo dei vestiti comodi e apro la finestra che dà sul balcone, prima i vetri e poi le persiane. Fuori l’aria è freddissima ma anziché ritrarmi spalanco le braccia e, respirando fino a riempire i polmoni, faccio un passo verso l’esterno. Il gelo del pavimento ghiacciato risale dai miei piedi arrossati lungo tutto il corpo, come un soffio vitale mi percorre e raggiunge la mente, riattivando i ricordi di tempi lontani e di luoghi amati: mi riporta alla sontuosità delle notti di vacanza passate in montagna a studiare le stelle, quando l’aria era blu e leggera. Forse la felicità sta proprio nel ritrovare la stessa leggerezza, la bellezza del giorno di ogni giorno.
Passerei ore così, ma la sveglia nella stanza vicina mi rammenta gli impegni che devo sbrigare. Scendo svelto le scale. Mentre bevo caffè amaro cerco di sistemare il tavolo e di preparare la colazione a mio figlio ma non ricordo, come sempre, dove sono conservati i biscotti, quelli che mangia al mattino insieme al latte. Apro ogni armadietto della cucina, spalanco perfino i cassetti, fino a che, voltandomi, mi trovo davanti mio figlio: sta in piedi, con i capelli biondi spettinati, il pigiama slacciato e il barattolo di biscotti in mano. Ride, ridiamo. Gli dò un bacio, gli sistemo i capelli e lo metto a sedere accanto a me sullo sgabello alto, quello che usano i grandi. Insieme facciamo colazione e ci prepariamo per uscire.
Non appena mi chiudo la porta alle spalle mi accorgo che ha iniziato a piovere. Una pioggia gelida, mista a neve, che costringe verso il basso il fumo che fuoriesce dai camini. “Non abbiamo preso l’ombrello!”, esclamo a Filippo che però non mi ascolta. Veloce salta di pozzanghera in pozzanghera e in un attimo ha già raggiunto la macchina dall’altra parte del giardino. Sembra che i bambini facciano ogni cosa di corsa, come d’altronde sembra correre il tempo se li guardi crescere. A volte stento a credere che siano già passati sette anni da quando, con lui appena nato, siamo venuti ad abitare in questa casa. Allora avevo cambiato lavoro da poco, venivo dalla città e non capivo cosa gli amici volessero dire quando mi ripetevano che trasferendomi qui sarei andato a “stare bene davvero”. Adesso, mentre guido verso la scuola, lo so: di fronte, dove la strada si perde tra le curve, le colline affiorano dalla foschia. Emergono e scompaiono in un ondeggiare armonioso. Posso distinguere i campi, che in questa stagione sono brulli e imbruniti dalla pioggia, gli ulivi, i cipressi che contornano le strade e i paesi arroccati sulle sommità. Come ogni giorno, dopo aver accompagnato Filippo, mi fermo in un piccolo bar vicino alla scuola. Un locale che non ha niente di bello o di speciale se non la vista che offre. Dai tavolini in fondo al salone riesco a vedere tutta la valle, concedo ai miei occhi di rilassarsi guardando lontano, fino a che il movimento delle colline non si fa lieve e si perde nell’avorio del cielo. Allora posso raggiungere altri paesaggi, diversi ma altrettanto familiari: quelli di quando ero bambino, solcati dai vigneti e dagli scarponi del nonno. Li rivedo immersi nella luce di luglio, con le api che volano tra i fiori gialli dei campi, freschi dell’aria di aprile, rivestiti dei colori di ottobre e inebriati del profumo dei castani.
Resto qui ad ascoltare i ricordi, a pensare e scrivere fino a che i tavolini non tornano a riempirsi e i caffè fanno posto ai bicchieri di vino. Il bar si popola di impiegati e operai in pausa dal lavoro. Conosco quasi tutti ormai e prima di andarmene scambio sempre qualche parola. “Ehi, Alessandro, esci anche con questo freddo!”, “ciao forestiero, saluti anche alla moglie!”. Sembra proprio che la maggior parte degli abitanti del posto condivida una certa gentilezza congenita e spontanea. Oggi non posso soffermarmi molto però. Prima che la scuola finisca devo finire di riordinare la casa: è il mio turno delle pulizie e voglio che mia moglie sia contenta del mio lavoro quando tornerà. Per pranzo, invece, ho promesso a mio figlio che saremmo andati a mangiare insieme un hamburger. Avremmo poi passeggiato per le vie del centro e fatto la gara con i carrelli dopo la spesa. “E compriamo anche il gelato con gli smarties?”, aveva esultato.
In questi anni ho scoperto di essere davvero bravo con i bambini. Mi piace passare il tempo con mio figlio, parlargli e portarlo con me per mostrargli quello che del mondo conosco di bello. Mi piace tenerlo sulle ginocchia e leggergli racconti di ogni genere: storie di esploratori e marinai, di boschi, fantasmi o dei popoli antichi. Abbiamo perfino letto, dall’inizio alla fine, Il conte di Montecristo.
Il pomeriggio lo aiuto con i compiti, gli insegno la grammatica e come scrivere i temi anche se lui, al contrario di me, sembra molto più portato per la matematica. Di solito ci sbrighiamo alla svelta. In poco più di un’ora finiamo di studiare, lui prepara la cartella per il giorno seguente e, senza che ci sia bisogno di dire una parola, ci spostiamo dalla scrivania al grande tavolo della sala. Entrambi sappiamo precisamente quello che dobbiamo fare: mentre lui corre a prendere nella cartelletta i suoi album, io libero dall’astuccio i colori che si sparpagliano ovunque sul tavolo. Disegniamo tantissimo insieme, con pastelli, pennarelli e acquerelli. Ci sporchiamo le unghie, ci coloriamo le dita e le mani fino a che, poco prima che torni la mamma, scegliamo tra i fogli quelli più belli e li appendiamo sulla porta, così che possa vederli non appena rientrata: è il nostro modo di farle sapere che siamo contenti che sia con noi a casa.
Cristina fa ritorno che sono quasi le sei. Il buio dei pomeriggi di gennaio sommerge già ogni cosa ma lei, vestita di chiaro e con addosso un profumo agrumato, sembra voler ricordare alla notte che non si è ancora fatto il suo tempo. Nonostante le molte ore passate in ufficio, la sveglia presto e la stanchezza è felice di darmi il cambio, così che io possa dedicare qualche ora al mio lavoro. Lascio dunque il salotto trasformatosi nel campo di un’efferatissima battaglia tra matite e cuscini e mi chiudo la porta dello studio alle spalle. Accendo il computer e riprendo gli appunti che avevo iniziato a buttar giù questa mattina. Non ho alcuna fretta, però: in questi giorni la redazione è chiusa e potrò inviare le bozze dell’articolo lunedì. Amo molto il mio lavoro e mi piace farlo per bene, con calma. Credo che scrivere mi renda migliore, capace di leggere il mondo – di interpretarlo e di prendermene in qualche modo cura. Questo per me è importante e non mi preoccupo se passo troppe ore sullo stesso paragrafo, scrivendo e riscrivendo. Così quando è pronta la cena ho elaborato appena qualche riga. Non importa. Scendo e insieme alla mia famiglia passo il resto della serata. Sono questi i momenti che attendo di più, momenti a cui l’inverno, con il suo freddo, invita a dare spazio. A tavola ci raccontiamo come è andata la giornata, mentre più tardi ci riposiamo un po’ sul divano. Filippo è ora molto più tranquillo e si addormenta quasi subito mentre guarda i cartoni animati. Lo accarezzo e lo porto in camera sua, adagiandolo sul letto: “felice notte”, sussurro senza svegliarlo. Anche noi andiamo allora a dormire. Sotto il piumino le lenzuola diventano calde alla svelta. Mi ci avvolgo, affondo la testa sul cuscino e abbraccio mia moglie. Abbiamo già gli occhi chiusi. In lontananza l’orologio della piazza suona i suoi undici rintocchi nel buio della notte.