(7) Libertà Assoluta – 1.3

NEW YORK

14 GENNAIO, ORE 11:00

La voce della hostess mi sveglia all’improvviso, quando nemmeno speravo che sarei riuscita ad addormentarmi. Il ritmo costante dei motori, le luci oscurate, piuttosto che cullarmi mi hanno sempre trasmesso un senso di oppressione. Guardo fuori dal finestrino, il cielo sembra essersi appena liberato della coperta della notte, nonostante il mio orologio segni già le 11 del mattino. A diecimila metri di altezza, il tempo sembra così tremendamente immobile. Tutto si perde nell’indistinto cielo. I fusi orari si inseguono e sovrappongono, ma non possono nulla contro la noia dell’attesa, che rende lentissima anche la velocità dell’aereo.

Ancora un’ora all’atterraggio: un’ora ad essere colpita dall’emozione di iniziare la mia sfida e avventura. Osservandomi riflessa vedo i miei occhi accesi, contornati dal trucco sottile ormai sbiadito. Sorrido e sprofondo nel sedile grigio, posto 54 k – corridoio, chiudo gli occhi. Sono felice. Ascolto il vociare della gente intorno, bevo un sorso di succo all’arancia, mi sgranchisco le gambe anchilosate. Ora sì, mi lascio cullare.

Sotto di me la terra comincia ad avvicinarsi, i contorni della baia e delle infinite isole che abbracciano New York si fanno sempre più percepibili, illuminati da un sole bianchissimo. Il tempo che non voleva passare sembra ora voler recuperare la sua corsa e in pochi attimi un sobbalzo improvviso ti avverte dell’avvenuto atterraggio. Ci siamo, eccomi in America.

L’aria gelida con cui New York mi accoglie è lo schiaffo che mi fa riprendere dalle troppe ore passate intrappolata in aereo. Neve ovunque e un immenso cielo trasparente. L’entusiasmo che mi aveva scortata lungo il viaggio mi ha lasciato un senso di frenesia incontenibile. Mi guardo intorno e raccolgo tutta quella forza che scopri di avere solo nei momenti più inaspettati. L’America mi saluta con la voce ruvida di un poliziotto che guardandomi da un vetro mi timbra il passaporto e con la promessa di non dimenticare mai di dare solo il meglio per tornare con un nuovo importante successo.

È domenica e anche le strade che portano a Manhattan sono un po’ meno trafficate rispetto agli altri giorni della settimana. Il tassista non fa altro che lamentarsi del freddo, pare, straordinario. Dovrebbero chiudere l’aeroporto, secondo lui, perché sull’asfalto il ghiaccio diventa una lastra dove si può pattinare ma non di certo fare atterrare gli aerei. Dice che sono stata fortunata ad essere riuscita ad arrivare, e mi chiede se noi, in Italia, abbiamo mai avuto così tanta neve. Ma subito, scuote la testa e puntualizza: “No, da voi ho sentito che c’è sempre il sole” . Mentre guida non lascia mai la sua tazza di caffè caldo e a vederlo mi ricordo che sono quasi 24 ore che non metto nulla sotto ai denti.

Uno scuolabus accosta e alcuni bambini si tuffano veloci nella neve. Fuori, i giardini delle case sono completamente bianchi. Qualcuno ha lasciato brillare ancora le luci di Natale appese sui tetti e sui marciapiedi rimangono solo le impronte di qualche coraggioso avventore. Soltanto a Manhattan si comincia a vedere qualche passante passeggiare tra le vie, con le mani serrate nelle tasche. Anche io, coperta di giaccone e di un sorriso che non si lascia spegnere da alcun freddo, mi lascio trasportare dalla città, dai suoi incroci, dalle sue luci e dalle sue sorprese.

Sulla cinquantottesima strada, il mio albergo è una vecchia fabbrica di caffè dai mattoni a vista e dalle ampie vetrate sulle quali si riflettono le ombre dei vicini grattacieli. Gli spazi sono stati completamente ridisegnati e sono diventati camere per turisti. La mia ha il numero 202, la porta in legno e l’arredo un po’ retrò. Cè anche un giradischi e una sfilza di fotografie in bianco e nero appese alle pareti. Sono sicura che starò bene qui.

Mi siedo su un divanetto blu davanti alla finestra della stanza e faccio qualche telefonata. Sono le tre: vorrei subito uscire, ma prima devo riordinare tutti i documenti per le riunioni che avrò nei prossimi giorni: se tutto andrà bene in tre settimane dovrei riuscire a chiudere l’accordo e portare la mia azienda sul grande mercato americano; ormai sono vicinissima al traguardo. Dopo tutto, è per questo che sono qui, seppure ancora faccio quasi fatica a crederlo.

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