14 GENNAIO, ORE 10:40
Alla riunione arrivo in ritardo. Sono già tutti seduti attorno al grande tavolo in cristallo al centro della stanza: una macchia di luce nel riquadro dell’ufficio poco arredato. È mattino, ma il sole è già alto sopra i tetti delle case e la luce filtra attraverso i vetri scuri delle ampie finestre. Deve fare molto freddo fuori, le strade sembrano ancora paralizzate dal gelo della lunga notte di gennaio e persino lo scorrere delle automobili, solitamente frenetico e incessante, appare irrigidito dai giorni più freddi di questo interminabile inverno.
Qualcuno mi guarda e accenna un saluto con un impercettibile movimento del capo. Prendo posto, mi verso un bicchiere d’acqua e cerco di recuperare il filo del discorso. A parlare è la responsabile del settore innovazione, una donna dalla voce eccezionalmente profonda, nascosta in un corpo minuto e perfetto, nonostante gli ormai non pochi anni alle spalle. Ero stato io stesso ad assumerla. Sta mostrando dei grafici e ne spiega i dettagli con decisi movimenti delle mani. È per molti un’incredibile oratrice, di quelle a cui è difficile negare qualcosa. La guardo, ma non la ascolto. Sprofondato nella capiente poltrona nera non posso fare a meno di pensare all’ultima telefonata: avrò fatto bene a farla? Avrei dovuto forse aspettare di avere qualche informazione in più? Ogni notizia che ricevo sul lavoro è riservata. Avrei dovuto starmene zitto o almeno non essere così precipitoso. Eppure qualcosa dovevo fare, c’è troppo in gioco… in fondo non ho fatto nulla di male, spero solo non mi abbiano sentito… spero che mi abbia creduto… avrei dovuto spiegarmi meglio… avrei…
Fine del primo intervento. Me ne accorgo perché la stanza, solo qualche attimo prima immobile, prende di colpo vita seppur con movimenti lenti e discreti. Qualche collega si alza per sgranchirsi le gambe, qualcun altro scambia qualche osservazione con chi ha di fianco. Mi alzo anche io e mi guardo intorno. La luce al neon mi infastidisce gli occhi e così mi dirigo verso la porta, dove è stato allestito un tavolino con delle caraffe di tè e di caffè, che verso nel bicchiere e bevo d’un fiato, senza preoccuparmi di verificare che non fosse ancora troppo caldo. “Come stai, tutto bene?” Mi giro di scatto. Luca mi scruta da dietro gli occhiali spessi, anche lui sta versandosi del caffè. Ribatto con un sorriso e un’alzata di spalle “al solito”, concludo. Abbiamo la stessa età ma lui sembra ancora il ragazzo con cui frequentavo le lezioni di matematica all’università, tanti anni fa. Quante ne abbiamo passate insieme! “Hai l’aria stanca”, sentenzia mentre torna a sedersi. Può sembrare sia facile rispondere a questa domanda: sto bene, sono all’apice della mia carriera e sto raggiungendo gli obiettivi che mi ero fissato, anche quelli più difficili. Eppure da un po’ di tempo fatico a mettere insieme una risposta sincera. Non perché non sappia come mi sento, ma perché descrivere come sto, spiegarlo richiederebbe troppo tempo e genererebbe una catena di domande alla quale io stesso non voglio rimanere imprigionato.
Riprendo posto. Ora a parlare è il responsabile commerciale. Questa volta ascolto, mi concentro, cerco perfino di prendere appunti. Mi rendo conto che la mia scrittura è diventata incomprensibile e disordinata, complicata come le giornate che si susseguono da mesi. Seguo la presentazione ma i pensieri riaffiorano poco a poco nella mia mente: riprendono vita, schizzano, si rincorrono tra loro e in silenzio si appropriano della mia attenzione. In un batter d’occhio si sono fatte le 13:00. L’atmosfera si fa meno gravosa e mentre tutti gli altri si preparano per andare a mangiare io mi alzo velocemente per tornare nel mio ufficio. “Finalmente un po’ di silenzio”, penso. Raccolgo dal tavolo la cartelletta che però è aperta: cadono per terra un pacchetto di sigarette vuoto e le scatole azzurre di pastiglie contro l’emicrania. Raccolgo tutto e attraverso il corridoio senza fermarmi, senza incrociare lo sguardo degli altri.
La mia stanza è in cima alle scale, al quinto e ultimo piano dell’edificio. Ero stato io stesso a sceglierla perché dalle sue ampie vetrate mi piaceva osservare il cielo e, soprattutto, le colline lontane puntellate di ulivi. Mi ricordavano quelle della mia giovinezza, rigate dai filari ordinati dei vigneti: quelle che scalavo col nonno la domenica, cercando nidi e divertendomi a scovare le impronte degli animali. Salivamo cantando vecchie canzoni e, mentre lui mi insegnava i nomi dei fiori e degli arbusti, io riempivo il cestino di more o di funghi. Non ricordo più quei nomi ora, come non ricordo il profumo dei prati o il bruciore di quando le mie ginocchia nude sfregavano contro la pietra dei muretti a secco. Non ricordo nemmeno la leggerezza dei giorni di festa. Accosto le tende, lo spazio si restringe al presente. Quel bambino con le mani sporche di fango se ne sta altrove e altrove è ormai un tempo perduto, incastonato tra la nostalgia e la dimenticanza.
Il bianco delle mura fa percepire la stanza più ampia di quanto sia in realtà. Ci sono due pesanti librerie colme di manuali, ma fogli e raccoglitori sono sparsi un po’ ovunque. Due vecchie racchette da tennis riposano contro una parete: una era mia mentre l’altra apparteneva a mia madre, molto più portata di me nello sport. La scrivania rimane immobile al centro della stanza e a dispetto di tutto il resto è sempre ordinatissima: nessun inutile soprammobile, nessuna fotografia ne viola lo spazio. Il piano in elegante velluto, i cassetti in legno massello, sono l’incanto della carriera. È qui che passo la maggior parte del mio tempo, ossequiando con diligenza l’agenda giornaliera degli impegni. Me la consegna ogni sera il mio segretario, riposta entro una cartelletta scura, stampata a caratteri piccoli, così che io possa ricavare dello spazio per semplici annotazioni.
Anche oggi giace sulla tastiera del computer. Gli appuntamenti, le riunioni, le telefonate, le scadenze, scandiscono la giornata di chi ha votato la propria vita al lavoro come le preghiere guidano quella del monaco. Alle 14:00 mi telefonerà il responsabile dell’area asiatica, alle 14:30 dovrò ricevere alcuni candidati per le nuove assunzioni, alle 16:00 l’ennesima riunione con il consiglio di amministrazione. Nel frattempo mi attendono cumuli di carte da vagliare e firmare.
Mi siedo, accendo il computer, mi immergo nelle mail ricevute. Dimentico perfino di mangiare. Lo realizzo solo nel tardo pomeriggio quando qualcuno, negli uffici accanto, comincia a prepararsi per fare rientro a casa. Io bevo caffè amaro e appoggio un momento i gomiti sulla mia scrivania, mantenendo la tazza a mezz’aria. È la stessa scrivania dove ho passato l’intera giornata di ieri, dell’altro ieri e del giorno prima ancora. Giorno, notte, di nuovo giorno. Osservo le mie mani nodose e pallide spuntare dalle maniche del pullover di lana. Mi ascolto pensare avvolto nel silenzio sontuoso della stanza. Avverto pace: dopo tutto a casa nessuno mi aspetta.
Spalanco la finestra e un’onda di gelo e di buio mi colpisce il volto. Respiro lentamente, come solo respiravo certe notti in montagna quando, ostinato, non volevo rientrare al rifugio per restare seduto sulle rocce umide a guardare il cielo e le stelle. I ricordi si presentano spesso senza un invito, quando meno te lo aspetti. Basta un suono, un dettaglio e te li ritrovi davanti come velocissimi lampi di vita, ma io mi infilo la giacca e scendo per cercare qualcosa con cui cenare.
Alle 20:00 rientro in ufficio. Non vi è più nessuno nel palazzo, ad eccezione del mio segretario che paziente se ne sta in piedi di fronte alla mia stanza, aspettandomi: “Non ho appuntamenti per domani e dopodomani, non è vero?” Domando. “Nessuno, Alessandro”. È uno dei pochi a chiamarmi per nome.
Mi rimetto al lavoro occupandomi finalmente dei documenti ricevuti questa mattina che riguardano l’asteroide che, secondo la NASA, sarebbe in rotta verso la Terra. Mantengo spenta la lampada: a farmi luce è solo lo schermo del computer e l’orologio che si illumina ogni volta che muovo il polso un po’ più velocemente del solito. Non bado all’ora, però. La possibilità di misurare il tempo si perde sotto la coperta della notte.
Conosco ormai ogni rumore di questo ufficio: il brusio delle ventole dei macchinari, il tintinnio dei tubi, le moto che veloci attraversano la strada. Nessuno di questi suoni mi distrae. Ci siamo solo io e le lettere nere sul bianco brillante dello schermo. Lettere che piano piano si fanno meno nitide, che si assottigliano e confondono, che si mescolano in un torpore grigio, sempre più opaco. Sono le 4:00 del mattino. Mi appoggio allo schienale della sedia e, incapace di ogni resistenza, mi abbandono a un sonno profondo.