PARIGI, SAINT-GERMAIN DES PRÈS
13 GENNAIO, ORE 7:00
Oggi compio 40 anni. Compio 40 anni ed è successo un’altra volta. Mi sveglio completamente vestito su un divano non mio. La mia borsa di cuoio è abbandonata sul pavimento vicino alle scarpe, la giacca buttata sull’appendiabiti di fianco alla porta, da sola. Le maniche della camicia sono arrotolate sopra i gomiti, i bottoni quasi tutti slacciati. Non ricordo nemmeno che cosa stessi facendo ma in bocca ho ancora il sapore del fumo. Mi alzo e mi strofino il viso con le mani, raccolgo le mie cose. Ci sono fogli ovunque, illuminati dalla luce che sempre più prepotentemente entra dalla finestra chiusa. Riconosco la mia scrittura, sgraziata e stanca per le troppe ore di sonno non consumato. Tutti i computer sono ancora spenti, i corridoi deserti e il silenzio, in questo ufficio, suona inquietante e meraviglioso. In lontananza si sente appena Parigi svegliarsi, le macchine e i passanti pulsano per le strade e animano la città. Mi avvicino alla scrivania, leggo qualche appunto e raccolgo la borsa. Sono le sette, devo bere un caffè e tornare al mio ufficio.
Non riesco più a contare le notti che ho passato in ufficio da quando lavoro a Parigi. Mentre aspetto l’ascensore penso che la cosa non mi dà affatto fastidio: aggirarmi per queste stanze vuote mi lascia un sentimento rassicurante da monarca assoluto, dopo tutto ho sempre vissuto la solitudine come una condizione di estrema libertà. Sento pace.
Questo dolce pensiero si infrange al piano terra, quando le porte si spalancano e mi scaraventano in un mondo che ha preso improvvisamente vita. Gente che cammina, parcheggi e porte di negozi che stanno aprendo. Cartelli, sigle, frecce, motori, voci, biciclette sui marciapiedi già stretti. Gli edifici dai tetti scuri si sostengono a vicenda davanti alla vecchia abbazia di Saint-Germain, mentre alcuni turisti trascinano valige pesantissime e scattano le ultime fotografie con l’esasperazione di chi non vuole perdere nessuna visione. Questo quartiere è ben noto alla mia mente, so esattamente che cosa mi aspetta oltrepassato il prossimo incrocio e dove portano tutte le sue vie, anche quelle che non ho mai percorso. Sebbene ami camminare per la città tendo a prestare fedeltà apostolica a una certa routine. Le strade riuniscono tutti i piccoli atomi che non si conoscono e mai si conosceranno in un’esistenza collettiva e io cerco di adattarmi conservando un certo ordine: anche la confusione è tenuta insieme dal suo filo rosso. Allora percorro Rue Bonaparte, alzo lo sguardo davanti a Saint Sulpice, bellissima, mi porto sull’altro lato della strada per imboccare Rue Palatine. Scorgo il mio riflesso sulla vetrina del venditore di teatrini cinesi, quelle dell’ottico, della banca, dell’hotel di lusso, della lavanderia a gettoni, della palestra. Svolto a sinistra, poi a destra, supero l’ingresso della metropolitana, i giardini pubblici recintati con un cancello in ferro, ed ecco l’incrocio con Rue de Tournon. Mi fermo sotto il semaforo, attendo, attraverso, sento la vicina cupola dell’edificio del Senato, schivo qualche pedone distratto, ancora qualche passo, e sono arrivato.
Il Chapelier fou è un locale che a dispetto del suo nome non rivela nulla di fiabesco o di stravagante. Non so perché ogni giorno vengo fin qui, sarà forse per l’arredamento fuori moda, che mi ricorda la casa dei miei nonni in Italia, o per il caffè ristretto che il vecchio Louis mi serve declamando un Arivederci che capitola sempre sulla doppia consonante. I suoi tavolini sono un ritrovo a buon mercato per studenti della vicina università. Entro ed è tutto un rosario di discorsi anarchici e idealisti: teorie nate premature che moriranno troppo in fretta. È incredibile come certe abitudini si tramandino di generazione in generazione.
Oggi il locale è ancora semivuoto e non fatico a trovare posto vicino alla veranda. Dall’altra parte della strada Simon si sta preparando a recitare ai passanti le sue poesie. Ha posato il cappello e si è tolto la giacca. Sta seduto dritto e non abbassa mai lo sguardo, le mani sulle ginocchia, i pantaloni a quadri verdi, le dita incrociate e la voce dolcissima. Si compiace di saper comporre poesie su qualsiasi soggetto in pochissimo tempo e ha fatto del suo talento la sua professione da strada. Bravo lo è davvero e di sicuro riposa meglio di me.
Sprofondo sulla sedia color zabaione e mi ritrovo a ricucire i pezzi del lavoro abbandonato ieri notte che devo portare tra poco a termine, quando i miei occhi cadono su qualcosa incastrato sotto il cuscino della sedia accanto. D’istinto lo afferro. È un libro! Che regalo di compleanno mi ha riservato il destino… nell’era virtuale sono sempre meno i lettori che non rinunciano a incollare i propri occhi su una pagina di carta piuttosto che sopra un monitor luminoso.
“Gradisce qualcosa da mangiare insieme al caffè?” Sobbalzo. “Ah.. un croissant al burro, per favore. E un succo all’ananas.” Sollevo incuriosito la copertina di cartone rigido, sciupato: Johann Wolfgang von Goethe. I dolori del giovane Werther. “Mi dispiace, ma abbiamo terminato il succo all’ananas.” Sorrido, ricordo di averlo letto anche io, molti anni fa. “Mi perdoni…” “Come, scusi?” Solo ora mi volto verso la cameriera che mi guarda vagamente perplessa. “il succo, mi è rimasto quello alla mela, va bene lo stesso?”. Non ricordo se frequentavo già l’università oppure… “… Hemm… si si, va bene lo stesso.”
Rimasto di nuovo solo insieme alla mia sorpresa comincio a sfogliarne velocemente le pagine. Leggo qualche riga qua e là, ci sono molte sottolineature colorate, cerco i titoli dei capitoli e le frasi isolate. Mi soffermo su qualche dialogo, ricomincio partendo dal fondo: è davvero inspiegabile l’emozione che mi procuri avere un libro per le mani. Girando le pagine mi sembra che qualcosa interrompa improvvisamente il regolare ritmo delle letterine stampate. Torno indietro e ripeto lo stesso movimento. Ecco, a pagina 83: appunto scritto a mano con una biro nera, caratteri maiuscoli e ricalcati più volte. Mi avvicino: “Ognuno 10 ore prima di morire era vivo”.
Ognuno era vivo dieci ore prima di morire. Che razza di frase… Ricomincio con la mia lettura ma mi accorgo che ormai si è fatto tardi. Devo finire la mia colazione e tornare a lavorare.
Pago ed esco di corsa mentre un tipo in tuta sta entrando nel locale. Guarda basso e quasi ci scontriamo, non sembra accorgersene. Di fretta saluto Simon che mi ricambia con il suo sguardo azzurrissimo ma non sorride.
Come pensavo, è stata una lunga giornata. Di quelle passate con i gomiti sulla scrivania e i palmi delle mani sulla fronte, quasi a voler sostenere quelle idee che quanto più servono quanto più faticano ad arrivare, mentre si vorrebbe soltanto dell’altro caffè. Oltre nove ore senza sosta metterebbero alla prova chiunque. Il monarca assoluto di questa mattina è ora un bracciante che si trova a difendere il proprio pezzettino di mondo dal disordine e dal chiasso degli altri braccianti come lui. Si sono fatte le 6, decido che è troppo, che non c’è nulla di eroico nel digiuno né nell’insonnia. Raccolgo le mie cose e me ne vado, esco e riprendo il mio percorso con la solita precisione, questa volta verso casa: alzo lo sguardo davanti a Saint Sulpice, mi porto sull’altro lato della strada per imboccare Rue Palatine. Scorgo il mio riflesso sulla vetrina del venditore di teatrini cinesi, quelle dell’ottico, della banca, dell’hotel di lusso, della lavanderia a gettoni, della palestra. Svolto a sinistra, poi a destra, supero l’ingresso della metropolitana, i giardini pubblici recintati con un cancello in ferro, ed ecco l’incrocio con Rue de Tournon. Mi fermo sotto il semaforo, attendo, attraverso – la cupola del Senato è sempre al suo posto – proseguo, appare l’insegna del Chapelier fou e… che succede? La strada è bloccata. Macchine, divise, sirene. Tutti girano attorno a un lenzuolo bianco a terra.